"E dopo tutto cos'è una bugia? | Solo la verità in maschera. (George Gordon Byron)"
La scrittura è spesso considerata un atto di espressione, ma se fosse, invece, un atto di camuffamento?
Se, anziché rivelare ciò che siamo, servisse a proteggere quello che non vogliamo o non possiamo dire? Eppure, anche quando tentiamo di tenerci al riparo dietro una storia, un verso, una voce narrante fittizia, accade qualcosa di imprevisto: il testo comincia a parlarci, o meglio, a svelarci.
Ogni scrittura — anche la più mascherata — lascia affiorare un sottotesto. Un livello sotterraneo, magari non cosciente, che racconta ciò che stiamo vivendo, ciò che ci inquieta, o ciò che desideriamo. È lì che si nasconde la nostra verità. Non nel contenuto esplicito, ma tra le pieghe delle parole, nelle scelte linguistiche, nelle omissioni, nei silenzi.
Possiamo scrivere per fingere forza, e il testo racconterà la nostra fragilità. Possiamo costruire personaggi idealizzati, e saranno proprio le loro contraddizioni a rivelare le nostre. Possiamo anche illuderci di dominare la narrazione — ma è la narrazione che, a un certo punto, ci conduce in un luogo interiore dove la verità prende forma, anche contro la nostra volontà.
In questo senso, scrivere non è mai solo creare. È anche conoscersi. A volte, leggere ciò che abbiamo scritto ci fa capire qualcosa che non sapevamo di pensare, o ci costringe a guardare in faccia qualcosa che volevamo evitare.
La scrittura è un atto duplice: ci maschera e ci svela. È proprio nel tentativo di nasconderci che finiamo per raccontarci.
Ma tale duplicità è ambigua: se il mascheramento è volontario, dove sta la forza della verità, della scrittura, dello svelarsi? E lo svelamento è forse esso stesso un camuffamento?
La questione pare infinita. A voi i commenti.
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