Quando poesia e musica si cercano (e si sfuggono)


"Che sia musica soave | spirti rei negar nol ponno | Se negli occhi a chi non l'have | introduce un dolce sonno." (Alessandro Scarlatti)


C’è stato un tempo in cui la poesia e la musica erano una sola cosa.

La parola nasceva orale, ritmica, destinata ad essere detta, cantata, portata nel mondo attraverso la voce. Il poeta era anche cantore. E la musica, a sua volta, era linguaggio che si faceva carne, veicolo di emozioni che la parola, da sola, forse non bastava a contenere.

Quella fratellanza originaria — profonda, viscerale — ha segnato per secoli il modo in cui l’essere umano ha cercato di esprimere l’inesprimibile.
Come ha scritto Elias Canetti, “La parola suonata è un’arma più penetrante della parola detta”. E proprio nella dimensione orale, vibrante, condivisa, la poesia trovava la sua forza più immediata e magnetica.


Ma poi qualcosa è cambiato.

A partire almeno dal petrarchismo — e ancor più con la modernità — la poesia ha iniziato a interiorizzarsi, a farsi più riflessiva, più visiva.
È scesa dalla voce alla pagina, si è fatta oggetto da leggere più che da ascoltare, esperienza individuale più che collettiva.
Il ritmo non è scomparso, ma è diventato sottotraccia, più mentale che acustico. La musicalità ha assunto forme più complesse, più frammentate. E la poesia, pur conservando una sua eco musicale, si è distanziata dalla dimensione propriamente orale del canto.

Nel frattempo, anche la musica ha mutato pelle.
Dal canto monodico e lineare delle origini — in cui la parola era al centro — si è passati a forme musicali sempre più stratificate, elettroniche, mediate dalla tecnologia.
Oggi la musica spesso non accompagna più il verbo: lo smonta, lo campiona, lo scompone in frammenti sonori.
È una musica che, come la poesia contemporanea, non teme la discontinuità, la rottura, il silenzio.

Eppure, proprio in questa distanza, le due forme sembrano ricercarsi di nuovo.

La poesia, in alcuni suoi slanci, torna a voler essere detta, recitata, incarnata. Non più per tornare indietro, ma per ritrovare una nuova oralità, adatta ai tempi.
La musica, dal canto suo, sembra a tratti ritrovare la parola, affidarsi di nuovo al testo, al verso, al significato.

C’è, oggi, un desiderio reciproco di riconciliazione. Una nostalgia dell’antico sodalizio, ma anche una spinta nuova verso una contaminazione fertile.

Come scriveva Paul Valéry: “La poesia è una specie di musica: bisogna sentirla con l’orecchio interno, come la musica con l’orecchio del cuore”.

E allora forse non è un caso se, in un tempo che disgrega e ricompone continuamente i suoi linguaggi, poesia e musica si cerchino di nuovo.
Non come specchi, ma come voci sorelle, capaci di affrontare insieme ciò che sfugge al linguaggio comune.
Perché entrambe, alla fine, hanno un compito simile: tentare di dare forma all’inesprimibile, con mezzi diversi, ma con la stessa urgenza.

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