Più libri, più liberi: così la «fiera dei piccoli» rischia di diventare la fiera di chi può permettersela
Dal 2002 la fiera romana “Più libri più liberi” si è imposta come punto di riferimento per la “piccola e media editoria”. L’idea è nobile: dare uno spazio a case editrici non dominate dai grandi gruppi, favorendo la diversità culturale e l’accesso al pubblico. Ma oggi — a guardare costi, dinamiche e posizionamenti — c’è almeno un dubbio legittimo: PLPL è ancora davvero una vetrina per i piccoli? O è diventata una fiera per chi ha almeno qualche risorse?
💶 Quanto costa partecipare: cifre, spese e barriere economiche
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Costo di uno stand “base”: secondo una testimonianza di un editore indipendente, “uno stand base costa intorno ai 3 mila euro”.
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A queste cifre vanno aggiunti trasporto libri, allestimento, logistica, eventuale iscrizione all’associazione, vitto e alloggio se l’editore non è di Roma.
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Questo tipo di investimento può essere per molti “micro-editori genuini” una soglia molto alta: probabilmente superiore al costo di produzione di una piccola tiratura, o addirittura prossimo a un bilancio annuale per realtà appena avviate.
Un aspetto confermato da uno dei firmatari di un manifesto critico che — dopo l’edizione 2024 — definiva PLPL «una fiera costosa per piccoli editori» e chiedeva di “rivedere costi e numero di giorni” per permettere una partecipazione dignitosa.
📊 Numeri e “da chi è composta” la fiera
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PLPL dichiara la partecipazione di circa 500–600 editori a ogni edizione.
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Storicamente si rivolge a “piccola e media editoria” come segmento di riferimento.
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Ma la definizione di “piccola/ media” è molto ampia, e non c’è un vincolo stringente che impedisca l’ingresso a editori “non piccoli”. Questo significa che la competizione per gli spazi — e soprattutto per quelli centrali e più visibili — finisce per avvantaggiare chi ha risorse economiche e un progetto strutturato. Alcuni degli stessi editori presenti hanno denunciato che “quelli medi tolgono visibilità e vendite ai più piccoli”.
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In effetti, secondo alcuni critici, la fiera — da ciò che promette sul piano ideale — si è “trasformata”: “non è più chiaro cosa significhi essere piccoli/medi, il criterio si è perso” e molti micro-editori si trovano marginalizzati o costretti ad “stand collettivi” per abbattere i costi.
⚠️ Le conseguenze di questa struttura: selezione per capitale, non per contenuto
Questa situazione produce alcune conseguenze sistemiche che colpiscono la “diversità editoriale” promossa da PLPL:
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La barriera economica diventa un filtro: chi non può permettersi 3.000 + euro (o molto di più, per uno stand “grande” o “centrale”) resta ai margini o rinuncia.
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La visibilità — decisiva per vendite, contatti, scambi — tende a concentrarsi su editori con risorse, distribuzione, logistica. Le micro-realtà genuine rischiano di restare invisibili.
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Il risultato: la fiera rischia di essere meno “una ribalta per la microeditoria” e più “un centro per editori da medie dimensioni in su” — insomma, una “fiera dei non-giganti” più che “dei piccoli”.
🧮 Un confronto (parziale): la piccola editoria in Italia e la posizione di PLPL
Per dare un po’ di contesto: secondo definizioni diffuse, la “microeditoria” (case che pubblicano pochi titoli l’anno, spesso meno di 10) rappresenta una fetta marginale del mercato editoriale nazionale: nella classificazione dell’Associazione Italiana Editori (AIE) i piccoli editori — per produzioni molto contenute — rappresentano solo una frazione molto piccola del valore complessivo della produzione libraria.
Se una fiera come PLPL pretende di rappresentare “oggettivamente” quella fascia, dovrebbe strutturarsi in modo da consentire l’accesso anche ai più fragili. In pratica: costi accessibili, spazi equi, magari meccanismi di supporto o compartecipazione. Ma i fatti mostrano un modello più “amicale” con realtà già strutturate.
✍️ Conclusione: un nome ancora utile — ma la funzione è mutata
“Più libri più liberi” mantiene un valore simbolico forte: ribadisce l’importanza della diversità editoriale, continua ad attrarre pubblico, autori, operatori, dibattiti.
Ma nella struttura che conta davvero — spazi, costi, condizioni di partecipazione — la fiera sembra aver evoluto la sua natura: da “vetrina per la microeditoria” a “mercato per editori medi e indipendenti con risorse”.
Questo non significa che sia “male” o inutile. Vuol dire però che la retorica dell’indipendenza totale e dell’equità reale per tutti è oggi fortemente limitata: in larga misura, chi può permetterselo — economica e logisticamente — domina la scena.
Se davvero ci interessa sostenere la microeditoria genuina, sarebbe il momento di chiedere nuove politiche interne a PLPL: contributi per piccoli editori, stand a prezzo calmierato, meccanismi di rotazione/visibilità, trasparenza su ammissioni e classificazioni.
Solo così — forse — PLPL potrà tornare a rispecchiare davvero lo spirito che ne ha ispirato la nascita.

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