Quando la letteratura diventa consumo (anche se i libri costano)
Viviamo in un tempo curioso: la letteratura è sempre più trattata come un prodotto di consumo rapido, eppure i libri – soprattutto le novità – costano. Questa apparente contraddizione racconta molto bene lo stato attuale dell’editoria e del nostro rapporto con la lettura.
Da un lato il libro è spinto dentro le stesse logiche degli altri beni: velocità, rotazione continua, novità costante, algoritmi che determinano cosa “funziona”. Il lettore viene esposto a un flusso ininterrotto di titoli, come in un grande scaffale digitale che si rinnova ogni settimana. Il tempo dell’attenzione si accorcia, quello della riflessione pure. Il libro diventa qualcosa da consumare, più che da abitare.
Ma dall’altro lato il libro resta un oggetto costoso. Non solo per chi lo compra, ma per chi lo produce. Carta, stampa, distribuzione, promozione, lavoro editoriale: tutto ha subito aumenti reali negli ultimi anni. Il paradosso è che al lettore viene richiesto di “consumare in fretta” qualcosa che, economicamente, non è affatto usa e getta.
Questa tensione produce effetti evidenti.
Il primo è positivo: l’accessibilità culturale. Mai come oggi tanta gente entra in contatto con i libri. Anche la narrativa più commerciale svolge una funzione importante: crea abitudine alla lettura, intercetta bisogni emotivi, intercala la scrittura nella vita quotidiana. Per molte persone è una porta d’ingresso, non un punto di arrivo. Inoltre, senza un mercato che gira, una parte enorme della filiera editoriale semplicemente smetterebbe di esistere.
Il secondo effetto è però più problematico: la semplificazione. Quando il libro viene progettato soprattutto per essere venduto in fretta, la complessità tende a ridursi. Le storie diventano formule, i personaggi tipologie, il linguaggio si uniforma. Non per mancanza di talento, ma per adattamento industriale. Il rischio non è la “brutta letteratura”, che è sempre esistita, ma la dissoluzione lenta della profondità.
C’è poi un terzo aspetto, spesso taciuto: l’ansia produttiva degli autori. Scrivere secondo il ritmo del mercato significa pubblicare in fretta, reggere la pressione della visibilità, restare costantemente presenti. L’identità stilistica, che dovrebbe richiedere tempo e silenzio, viene talvolta percepita come un limite, non come una ricchezza.
Eppure, nonostante tutto questo, il libro resiste a una logica puramente consumistica per una ragione semplice: non è un bene qualsiasi. Un libro non è mai solo l’oggetto che si paga alla cassa. È tempo umano condensato. È attenzione, scelta, rischio. È anche, sempre, un incontro. E gli incontri non si “consumano” davvero, anche quando si pagano.
La verità è che la letteratura ha sempre oscillato tra due poli: intrattenimento e ricerca, mercato e necessità espressiva. Oggi l’ago della bilancia pende chiaramente verso il primo. Ma la storia culturale insegna una cosa con costanza quasi matematica: quando l’intrattenimento satura, torna il bisogno di opere che non servono solo a passare il tempo, ma a comprenderlo.
Forse allora il vero nodo non è se i libri costano o se sono diventati prodotti. Il nodo è un altro: che tipo di esperienza diamo valore quando scegliamo un libro? Quella che si esaurisce in poche ore, o quella che continua a lavorare dentro di noi molto dopo l’ultima pagina.
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